giovedì 10 novembre 2011

Stiamo grattando il Fondo

In questi giorni non si può non parlare dei problemi dello Stato Italiano e, si sa, quando c’è un problema si cerca di trovare una soluzione, un po’ come quando eravamo bambini e ci sbucciavamo le ginocchia giocando, come facevamo? Semplice, cominciavamo a strillare, arrivava la mamma che ci aiutava… Le cose non sono molto diverse a livello di stato: la via più semplice è sempre quella di chiedere aiuto agli altri!
Ora, che la crisi stia stringendo l’Italia in una morsa è evidente, anche la politica ne risente… chissà, tireranno la cinghia anche i nostri cari e amati deputati e onorevoli? Forse no, ma sicuramente questi non son tempi tranquilli neanche per loro… basti pensare che la crisi probabilmente si porterà via dalle scene Silvio, il Berlusca che ha dominato la politica del Belpaese da più di 15 anni.
Ma torniamo all’aiuto della mamma per il figlio in difficoltà, che letto in chiave economica diventa aiuto del Fondo Monetario Internazionale, un'organizzazione composta dai governi di 186 Paesi istituita nel 1946, dopo i celebri accordi di Bretton Woods. Il FMI oggi si occupa perlopiù di concedere prestiti agli Stati membri in caso di squilibrio della bilancia dei pagamenti; il fondo è stato protagonista di salvataggi importanti, come ad esempio l’Argentina nel 2001 o il Giappone nel 1997.
E veniamo a noi: l’attuale premier si è distinto per aver espresso pareri negativi sull’eventuale aiuto del FMI; ma perché non si dovrebbe accettare un aiuto “della mamma”? Perché insieme al prestito arriverebbero anche degli obiettivi da rispettare, insomma, il Fondo vuole che il paese in difficoltà ritrovi la retta via e per evitare che sbandi di nuovo deve intraprendere un giusto percorso, fatto di scelte spesso dolorose (leggi licenziamento del pubblico impiego, liberalizzazione, svalutazione della moneta). A parte la svalutazione (aderendo alla moneta unica è improponibile), lo scenario potrebbe essere questo: lo Stato riceve un aiuto finanziario, ma si deve immediatamente mettere a far cassa vendendo gran parte degli assets che ha, un po’ come succede nelle liquidazioni volontarie delle imprese. Solo che qui si parla di Stato, e l’interesse pubblico non può essere messo all’asta, spesso lo Stato si fa carico di quei servizi che per loro natura non possono e non devono essere gestiti dagli enti privati (si pensi a sanità, istruzione, giustizia o belle arti).
Vale d’avvero la pena svendere i beni pubblici del Nostro Paese, rivoluzionare il nostro stato sociale rinunciando agli attuali livelli assistenziali, per avere in cambio qualche finanziamento europeo? A mio modesto avviso la risposta è NO. Il Fondo Monetario Internazionale negli ultimi anni ha pagato i riflessi delle sue “ricette politiche” troppo spesso abbozzate, incoerenti con le specifiche situazioni degli Stati che negli ultimi venti anni ne hanno chiesto l’intervento. Dalla crisi argentina del 2001, dove il Fondo impiegò risorse ingenti, gli Stati che hanno richiesto l’aiuto di questa istituzione sono diminuiti drasticamente, segnando la fine di questa gloriosa istituzione internazionale. Non dimentichiamoci però, che in questi giorni al Fondo è stato affidato il compito di monitorare l’andamento dei nostri conti pubblici, almeno per i prossimi trimestri. Il mio auspicio è che il suo compito sia soltanto quello di monitorare e non quello di indicare al Paese la “rotta da seguire per il futuro” perché, altrimenti, la situazione potrebbe diventare così grave che più nessuno, nemmeno “la mamma” potrà venirci a salvare.

sabato 9 luglio 2011

MARIO DRAGHI: UNA RIVINCITA PER L’ITALIA

“Il risorgimento politico di una nazione non va mai disgiunto dal suo risorgimento economico”. Lo disse Cavour e lo ha ripetuto Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e designato, dal prossimo 24 giugno, presidente della Banca Centrale Europea.

Parole, quelle di Draghi, che hanno dato un assaggio della sua futura linea guida e che confermano che non ci saranno sconti per il Belpaese.

Il rigore di Draghi è stato apprezzato anche oltralpe: ”Il meglio dell'Italia alla guida della BCE”. E’ questa l’opinione che “Le Monde”, il maggiore quotidiano di Francia, si è fatto sul futuro presidente della Banca Centrale Europea. All’interno del giornale viene presentato un lungo ritratto dell’economista che mette in risalto come un italiano, “frivolo e spendaccione” secondo i cliché francesi, sia riuscito, grazie alla sua discrezione e alla sua pazienza a vincere la concorrenza per porsi alla guida di una istituzione bancaria nota per il suo rigore.

Ma cosa piace così tanto di lui, tanto da convincere anche i nostri (sempre scettici!) cugini francesi? Forse il suo pragmatismo, la sua capacità di dire le cose in modo diretto, proprio come ha fatto nel suo ultimo discorso da presidente della Banca d’Italia. In questa occasione, Draghi ha messo in luce i guai del nostro Paese, ma ha anche affermato l’obiettivo di tornare alla crescita. Il governatore propone una lista di otto proposte che partono con l'efficienza della giustizia civile, la riforma del sistema dell'istruzione, la riduzione delle aliquote fiscali su cittadini e imprese, finanziando i tagli attraverso il recupero dell'evasione fiscale, la concorrenza, il mercato del lavoro e gli investimenti nelle infrastrutture. Si tratta di riforme che vanno realizzate pensando “a quale Paese lasceremo ai nostri figli”.

Le considerazioni di Draghi naturalmente non si sono limitate all'Italia, ma hanno spaziato nell'economia internazionale e soprattutto europea. Il governatore ha sottolineato la necessità di attuare le riforme, a cominciare dagli accordi di Basilea III tesi a rafforzare la solidità patrimoniale delle banche, per far sì che il dilemma delle “banche troppo grandi per fallire” non finisca ancora una volta per scaricare i costi dei loro salvataggi sulla collettività.

Riguardo alla situazione economica internazionale, Draghi è ottimista: secondo lui, infatti, la strada del risanamento è percorribile, anche per quei Paesi, come Irlanda, Grecia e Portogallo, il cui debito pubblico è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi tre anni. “La risposta sta innanzitutto nelle politiche nazionali, nella piena attuazione dei piani correttivi concordati”.

Insomma, un discorso chiaro e preciso, che non fa sconti a nessuno, né ai politici né agli imprenditori. Il nostro Paese può essere ben felice di vedere un suo cittadino, ma soprattutto una persona capace e apprezzata anche fuori dai nostri confini, a capo di una istituzione così importante, cosa che non avveniva ormai da anni. Speriamo che questa opportunità venga ben sfruttata e che serva a far crescere la reputazione internazionale del Belpaese.


martedì 5 luglio 2011

Le economie emergenti in corsia di sorpasso


Nei prossimi 40 anni le economie emergenti, le cosiddette E7 (Cina, Brasile, India, Turchia, Messico, Indonesia, Russia) supereranno i paesi industrialmente più avanzati, G7 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Canada). Questo è il risultato di un’analisi “Banking 2050: How big will the emerging markets get?” Svolta dalla pricewaterhousecoopers, una delle Big Four della consulenza aziendale a livello mondiale. 
Il report, che è la proiezione di uno studio già uscito nel 2007, mostra come, nel 2036 (cioè tra meno di 30 anni!) Il valore delle attività bancarie delle economie emergenti (E7) supererà i valori dei paesi del G7. Il sorpasso era già stato pre-annunciato, ma la cosa interessante è che i tempi si stanno accorciando. Nel 2007 si prevedeva che il sorpasso sarebbe avvenuto nel 2046, mentre adesso i tempi sembrano essersi accorciati di ben 10 anni. La situazione è ben poco confortante! 

Se guardiamo al nostro paese i dati non sono incoraggianti: l´Italia si colloca all´ottavo posto in termini di attività bancarie, con previsioni che indicano una modesta crescita negli anni a venire. E per il futuro? Nel prossimo ventennio l´Italia verrà sopravanzata dall´India e nel ventennio successivo da Brasile, Russia e Messico, ma a sua volta dovrebbe superare la Spagna, collocandosi, quindi, nel 2050 all´undicesimo posto del ranking mondiale in termini di attività bancarie. 
Ma a cosa è possibile attribuire questa accelerazione nei tempi? Una prima spiegazione è data dal fatto che lo studio è stato aggiornato per tenere conto degli effetti della crisi finanziaria. Crisi finanziaria che, come sappiamo, ha colpito in maniera prevalente le economie avanzate rispetto a quelle emergenti. 
Ma la domanda che tutti noi probabilmente ci stiamo chiedendo a questo punto è se l’Italia riuscirà a salvarsi da questa debacle. Prima di essere ancora una volta critici nei confronti del nostro Paese è bene dare qualche precisazione: è ovvio che il mercato bancario italiano è un mercato maturo ed i cambiamenti regolamentari attesi (si pensi ai nuovi accordi di Basilea III) potrebbero incidere in termini negativi sui tassi di crescita. Per questo sarà fondamentale per il nostro sistema bancario ritrovare livelli di redditività soddisfacenti in modo tale da consentire alle nostre banche di tornare ad avere un ruolo fondamentale nello sviluppo economico del nostro Paese. Nonostante questo è ragionevole attendersi che le banche delle economie emergenti (E7) svolgeranno sempre di più un ruolo di primo piano nello sviluppo economico mondiale. 
Insomma, la partita E7 VS G7 è ancora aperta.

domenica 3 luglio 2011

Stop alle ganasce fiscali!


“Stop alle ganasce fiscali!” E’ questa la richiesta avanzata da una risoluzione approvata dalla Commissione Finanze della Camera. La questione era stata sollevata anche dal ministro Tremonti, e il fatto che la risoluzione sia stata approvata con voto bipartisan conferma due aspetti: in primo luogo davanti alle sanzioni siamo pronti a collaborare con il nemico, e poi, forse, le regole così come sono non fanno il  bene di nessuno e vanno veramente riscritte.

In particolare, la risoluzione propone di introdurre maggiore flessibilità nei confronti di quegli imprenditori morosi, ahimè, alle prese con i provvedimenti di riscossione coattiva (tra i quali le famigerate ganasce fiscali). L’atteggiamento che prevaleva fino ad ora era stato l’opposto: cartelle recapitate con una non chiara identificazione delle multe, sanzioni ed interessi per le infrazioni e pronta esecutività dei provvedimenti.
E cosa hanno pensato i nostri legislatori? Di chiedere sostanzialmente tre cose: primo, la possibilità di concedere al debitore un nuovo piano di rateazione in caso di mancato pagamento di una o più rate se effettivamente il contribuente si trova in una situazione di difficoltà economica. Secondo: rivedere la disciplina dei debiti sotto i 2.000 Euro (Equitalia in questi casi dovrebbe limitarsi a mandare solleciti di pagamento, senza azioni esecutive). Terzo: innalzare a 20.000 l’importo del debito al di sotto del quale non è possibile iscrivere ipoteca o procedere all’espropriazione degli immobili.

Dicevamo, la richiesta sarebbe particolarmente gradita anche se appare in controtendenza anche con recenti provvedimenti emanati (e assolutamente pro-fisco!), quali l’impossibilità di compensare tributi erariali se si hanno delle cartelle di pagamento scadute per importi superiori a 1.500 Euro (art. 31 del D. Lgs  78/2010) o l’esecutività delle cartelle esattoriali a partire dal 1° luglio 2011; mi soffermerei su quest’ultima norma perché secondo me ha dell’incredibile: tra un mese, infatti, se arriva una cartella esattoriale, il contribuente è tenuto a versare la metà dell’importo anche se si intende fare ricorso. La domanda è: che questa risoluzione sia solo un contentino per controbilanciare le bastonate –fiscali, s’intende– in arrivo?

La cultura del rischio aziendale: consigli pratici per un futuro migliore


“Il rischio è la potenzialità che un'azione o un'attività scelta (includendo la scelta di non agire) porti a una perdita o ad un evento indesiderabile”.
Prima di tutto è bene ricordare che in concetto di rischio è fondamentale in economia, e ormai nessun operatore del settore può più permettersi di ignorarlo. La recente crisi finanziaria, infatti, ci ha insegnato come una sottovalutazione del rischio da parte di tutti (organismi internazionali, stati, banche, e risparmiatori) abbia portato tremendi danni a cascata di cui sentiamo ancora oggi le conseguenze.
Una volta definito il rischio vediamo, con un esempio, come questo può trasferirsi da un soggetto all’altro senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. Prendiamo il nostro risparmiatore che decide di acquistare obbligazioni di un’azienda X. Per farlo si interfaccerà con la sua banca di fiducia che gli farà firmare una dozzina di fogli prestampati, scritti in caratteri molto piccoli, esattamente come prescrive la legge. Il nostro investitore, come ognuno di noi, non si metterà mai a leggere questa montagna di fogli, e anche se si mettesse a leggerli difficilmente riuscirebbe a comprenderne il significato, per questo tenderà a fidarsi della banca. Beh tutti questi fogli potrebbero essere risparmiati se si volesse veramente informare il risparmiatore su cosa stia effettivamente comprando. Mi spiego meglio: una società in questo caso X emette obbligazioni per procacciarsi risorse economiche sul mercato per finanziare i propri investimenti. Ebbene, ogni investimento è soggetto a un rischio, variabile certo, ma pur sempre un rischio a cui il risparmiatore deve porre attenzione. Gli investitori quindi comprano debiti di una società con i relativi rischi industriali. Invece di utilizzare (e rischiare) denaro proprio per investire, le società usano quello degli altri, trasferendo quindi il rischio agli obbligazionisti, i quali spesso non ne sono consapevoli, in quanto considerano certi sia gli interessi che riceveranno, che il capitale che verrà loro restituito.
Molti di voi penseranno che non va esattamente così, molti rischi, infatti, possono essere coperti sfruttando altri strumenti finanziari, i cosiddetti derivati. Ovvero titoli che dipendono dall’andamento di altri titoli sottostanti. Le imprese hanno sfruttato questi contratti per difendersi dal rischio derivante dai propri investimenti, stessa cosa hanno fatto i piccoli risparmiatori per difendersi dal rischio che i loro investimenti non venissero rimborsati a scadenza.
Tutti questi soggetti, credendo di aver adeguatamente coperto i propri rischi, hanno iniziato ad indebitarsi sempre di più, e ad iscrivere quantità sempre maggiori di derivati, lasciando la tradizionale forma di copertura rappresentata dal capitale proprio.
Quest’ultimo è tradizionalmente la garanzia contro il rischio di un cattivo investimento, ma nel momento in cui ci si sente quasi senza rischi, si tende a crescere l’indebitamento da parte di terzi (ovvero le obbligazioni). In questo modo però le aziende hanno finito per legare il loro destino a quello del sistema finanziario, e quando questo è crollato a causa dell’insolvenza di coloro che si erano indebitati tramite i cosiddetti “mutui subprime” (cioè mutui concessi a persone quasi prive di  qualsiasi forma di garanzia), tale crollo ha trascinato nel precipizio moltissime banche e aziende.
Sicuramente una maggiore cultura del rischio diffusa a cascata su tutti i soggetti economici sarebbe un bel deterrente per le prossime crisi finanziarie che potrebbero caratterizzare la futura economia: peccato che nessuno dei nostri politici stia pensando un’idea del genere, non solo come deterrente di comportamenti scorretti, ma anche per riformare quella cultura della legalità che abbiamo visto infrangersi ormai troppe volte negli ultimi anni. Ma si sa, governare un popolo ignorante è più facile!

venerdì 1 luglio 2011

I Tre moschettieri: uno sguardo nel mercato del rating

The investitor right to know”: è questo il principio che ha ispirato la nascita delle moderne agenzie di rating. Henry Varnum Poor, John Moody e John Knowles Fitch, sono stati i primi, seppur in epoche differenti, a condividere un pensiero comune: “il diritto dell’investitore di conoscere”. Grazie a questo pensiero, infatti, sono nate le omonime agenzie, che coprono attualmente la quasi totalità del mercato mondiale del rating.

Queste agenzie nel corso degli anni sono diventate sempre più importanti, specializzandosi con metodi sempre più oggettivi per le loro valutazioni, basate sia su elementi quantitativi, ovvero i numeri di bilancio, sia su elementi qualitativi, come le previsioni sull’andamento futuro dell’azienda.
Sicuramente avrete sentito la notizia che in questi giorni l’agenzia Moody’s ha deciso di monitorare province, comuni e molte delle aziende a controllo pubblico del nostro Paese (per citarne solo alcune: Hera, Eni, Finmeccanica…) per stilare un giudizio, espresso sotto forma di punteggio, sulla loro solidità economica e patrimoniale. Già, perché il compito di queste agenzie è quello di stilare un rating, ovvero un voto, espresso solitamente con un codice alfanumerico sulle capacità di un emittente (sia esso uno Stato un soggetto privato o anche una banca) di rimborsare il capitale e corrispondere gli interessi relativi all’emissione di obbligazioni. Giudizio, che, come si evince dal loro “motto”, serve agli investitori per compiere delle scelte il più possibile ponderate e razionali. 

Cercherò di spiegarmi ancora meglio con un esempio: immaginiamo un piccolo risparmiatore, che decide di investire i suoi risparmi in uno strumento sicuro, con un grado di rischio relativamente basso e che gli renda qualcosa in più del tasso di inflazione: ovvero un’obbligazione.
Oggi in circolazione ci sono ci sono obbligazioni emesse da imprese di tutto il mondo e, grazie anche alla globalizzazione, è semplicissimo scambiarle in tempo reale.
Quando si sottoscrive un’obbligazione bisogna però sempre verificare la solidità finanziaria dell’emittente e le agenzie in questione esistono proprio per questo motivo: i rating sono suddivisi in una apposita griglia che parte dal livello più alto, quello dell’affidabilità massima dell’investimento (questo vuol dire che c’è lo 0,1% di possibilità che l’emittente fallisca nel giro di cinque anni), scendendo fino all’ultimo, quello che ci segnala un grandissimo rischio di insolvenza. Naturalmente è bene ricordare che accettando un rischio maggiore si otterrà anche un interesse maggiore dal nostro investimento, mentre un investimento sicuro ci renderà sicuramente molto meno. 

Torniamo adesso al nostro risparmiatore, al quale, sarà già venuto in mente il caso della Grecia, paese ormai a rischio default finanziario, con titoli del debito pubblico con giudizi molto scarsi ma rendimenti molto alti.  Sicuramente il risparmiatore si chiederà se la ricetta giusta per investire tranquillamente sia quella di seguire alla lettera le indicazioni di queste agenzie. A questo proposito, è bene ricordare che, nonostante i timori nei confronti della Grecia siano stati ben riposti, non sempre i giudizi di queste agenzie si sono rivelati veritieri. Nel corso degli anni qualche abbaglio lo hanno preso anche queste società nel valutare gli investimenti (come il caso Parmalat o Lehman Brothers), ma comunque non si può prescindere da esse: ora i riflettori sono rivolti proprio nella direzione delle banche del nostro Paese, considerate poco affidabili in un momento così delicato. Mediobanca, Bnl, Findomestic e Intesa sono attentamente monitorate già da tempo, ma non bisogna lasciarsi prendere dal panico: il consiglio è quello di sottoscrivere obbligazioni sicure e con i rating più alti, ma di esaminare comunque nel dettaglio la reale situazione dell’emittente per avere un quadro più chiaro.

Se volete approfondire qualche argomento lasciate pure un commento e vi risponderò nel prossimo articolo.

giovedì 2 giugno 2011

Le crisi aziendali: aspetti pratici

Oggi parliamo di un argomento purtroppo quanto mai all'ordine del giorno, le Crisi Aziendali. Le crisi, nell’attuale scenario economico, sono una realtà, purtroppo, ancora frequente. Esistono alcuni tipici segnali che informano il management dell’esistenza di complicazioni nel corretto funzionamento dell’azienda. Qualche esempio? Perdite economiche (riduzione delle vendite), incidenza dei costi variabili (incremento delle materie prime), sottocapitalizzazione (situazione tipica delle piccole e medie imprese italiane), forti squilibri nei flussi finanziari (drenaggio di liquidità), insolvenza, e una generale e condivisa sensazione di incertezza nei confronti del futuro sono sintomi che non vanno trascurati.
Per uscire dalle crisi aziendali è fondamentale affrontarle con un approccio corretto. Non vanno interpretate come eventi catastrofici e imprevedibili, ma come possibili momenti negativi nel ciclo di vita di un’azienda. Un elemento importante che l’imprenditore deve tenere in considerazione è l’effetto tempo: infatti, soltanto se i segnali di crisi verranno colti tempestivamente sarà possibile trasformare i problemi in reali opportunità di rilancio per l’azienda.
L’imprenditore in molti casi non accetta la realtà, si trova a reagire alla crisi quando ormai è troppo tardi e l’unica procedura che può essere adottata è ormai solo il fallimento (disciplinato dal Decreto 16 marzo 1942, n. 267 c.d. “legge fallimentare”, modificato dai D.Lgs 9 gennaio 2006 n.5 e dal D.Lgs 12 settembre 2007 n.169 che hanno riformato il diritto fallimentare).
Nei casi meno gravi, all'imprenditore commerciale che si trova in stato di insolvenza, o semplicemente “in stato di crisi”, è concessa la possibilità di evitare il fallimento e tutte le gravi conseguenze che esso comporta, utilizzando un’altra procedura concorsuale, il concordato preventivo, il quale si sostanzia in un accordo tra il debitore ed i creditori, in forza del quale il primo si obbliga a pagare i propri debiti, proponendo un piano di rientro ai propri creditori.
A questo proposito, i dati pubblicati dell’Osservatorio Trimestrale sulla crisi d’impresa pubblicato da Cerved Group, che analizza le imprese italiane, ci confermano che la crisi sta ancora interessando il nostro sistema economico: i fallimenti stanno ancora aumentando (+6% rispetto al 1° trimestre 2010); la buona notizia è che il tasso di crescita è sceso dal 25% al 6%. Le domande di concordato preventivo, che si erano nuovamente innalzate nell’ultimo trimestre del 2010 sono calate a 249 nel 1° trimestre 2011, ma rimangono storicamente elevate. Se paragoniamo i dati dell’Italia con quelli del resto d’Europa, notiamo come in Italia la crisi abbia colpito soprattutto le imprese di tipo manifatturiero: la percentuale di fallimenti nell’industria manifatturiera italiana è molto più alta rispetto alla media europea, dove invece commercio e servizi hanno sofferto di più.
C’è da dire però che il tessuto imprenditoriale italiano, caratterizzato dalla piccola e media impresa, ha preservato al nostro paese danni ancora peggiori. A tale proposito, è bene menzionare un altro strumento a disposizione delle imprese, introdotto con la legge 80 del 2005 art. 182 bis, ovvero gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Questo strumento che fa parte delle risoluzione stragiudiziali (“privatistiche”) alla crisi d’impresa, ove applicabile, risulta essere, rispetto al fallimento, uno strumento più snello che consente in tempi più rapidi e un soddisfacimento più elevato della massa dei creditori.
A mio avviso, la scelta migliore nel caso di crisi aziendali è affidarsi a un team di professionisti: in tal modo l’imprenditore e i suoi collaboratori possono concentrarsi sulle attività propositive dell’azienda, lasciando in mani esperte la scelta dello strumento migliore per risolvere la situazione di crisi in cui si trova l’azienda.

Cedolare Secca: istruzioni per l'uso

La cedolare secca sugli affitti è un’opzione prevista dall’art. 3 del Decreto Legislativo 23/2011; si tratta di un’imposta alternativa a quelle attualmente dovute sulle locazioni, in particolare sostituisce l’Irpef e le relative addizionali, l’imposta di registro e l’imposta di bollo. Cerchiamo di sciogliere i nodi principali:

In concreto come funziona? La cedolare è molto semplice, si applica il 21% (o il 19% se il contratto è concordato e su immobili ubicati in particolari comuni) al canone di locazione; il reddito in questione non si somma ai reddito globale del soggetto, soggetto ad aliquote progressive che vanno dal 23 al 43%. Se si opta per la cedolare, però, si ha anche qualche piccolo svantaggio, per cui prima di correre dal commercialista occorre fare due calcoli.
Innanzitutto non è possibile rivalutare il canone secondo gli adeguamenti Istat, in secondo luogo con la tassazione normale è consentito un abbattimento del canone all’85%, mentre con la cedolare tutto il canone percepito viene tassato.
Piccola ma doverosa chiosa sulla rivalutazione Istat: supponiamo di avere un canone di 500 euro mensili, con un’inflazione del 2% annua, non si potrà chiedere all'inquilino l'adeguamento dei 120 euro annui.
Per un calcolo rapido della convenienza suggerisco questo sito:

Cosa si deve fare se si vuole optare per la cedolare? Per i contratti già in essere la norma prescrive che si debba informare l’inquilino, (io suggerisco tramite raccomandata)… ed anche il commercialista, che in questo periodo sta pensando a come calcolare i vostri acconti. L’opzione per la cedolare poi sarà espressa nella dichiarazione dell’anno prossimo.
Per i nuovi contratti, invece, si dovrà compilare un modello reperibile sul sito dell’Agenzia delle Entrate (Siria per l’invio telematico o Modello 69 per tutti i contratti).

A chi conviene? Sicuramente la norma agevola i contribuenti con aliquota marginale più elevata, e anche per questo è stata aspramente criticata dalla stampa specializzata; lo Stato si è fatto i suoi conti e spera di aumentare il gettito grazie alla semplicità dell’applicazione del tributo, che permetterebbe di mettere in regola molti contratti tutt’oggi irregolari. Vedremo se sarà davvero così!

mercoledì 19 gennaio 2011

Testa o croce? In finanza si dice "Risk On" o "Risk Off"


Qualche giorno fa è apparso sul Sole 24 Ore un articolo che parla di “borse sincronizzate” e “scenario da fantafinanza”: inutile dire che l’argomento stuzzica l’attenzione, vediamo un po’ cosa ci propone l’autore, Vittorio Carlini.
Dunque, l’idea è piuttosto semplice: un mondo in cui indici, bond governativi, materie prime si muovono insieme; in una parola: asset finanziari tra di loro correlati. Secondo Carlini e gli esperti Hsbc, si tratta di un trend sottovalutato che negli ultimi anni che, seppure con le debite pause, è cresciuto (soprattutto quando la crisi morde l'economia reale!). Saremo di fronte ad una situazione provocata da un particolare fattore che, a loro dire, "domina" i mercati. «Il cosiddetto meccanismo del risk-on e risk-off», spiega Stacy Williams, uno dei coautori della ricerca di Hsbc. Vale a dire? «Si tratta della polarizzazione nelle scelte di trading. Gli investitori tendono a semplificare le loro strategie. Se stimano che le prospettive future», nel medio periodo, «sono buone assumono il rischio e investono: è il risk-on. Diversamente, disinvestono: il rischio è off. Giocoforza, in questa semplificazione, le caratteristiche singole dell'asset e la diversificazione di portafoglio, finiscono sullo sfondo».
Secondo Hsbc, proprio il fenomeno della correlazione sarebbe la prova della diffusione di una simile modalità d'investimento. Lo studio prosegue con un’analisi storica della “sincronizzazione” delle borse.
Tra il 2005 e il 2007 si nota una correlazione tra il rendimento dei governativi decennali di Giappone, Canada, Usa, Inghilterra e Australia. Tuttavia, le variabili che influenzano le quotazioni sono molteplici. La situazione, però, cambia dopo il caso di Northen Rock : «In quel periodo si riscontra, per esempio, un forte incremento della correlazione positiva tra gli indici di Borsa e diverse commodity. Salgono le prime e anche le seconde». Lo scenario di fondo si consolida, poi, dopo il crack Lehman Brothers : «Diminuisce la differenza di performance tra le Borse occidentali e quelle emergenti. Nel 2009, infine, la polarizzazione delle strategie è ai massimi. Il sincrono tra i movimenti di asset differenti quali il rendimento del decennale Usa, quello canadese, il Russell 2000, l'S&P e il Ftse100 è elevato. Un trend che, nonostante la ripresa economica, prosegue ancora oggi».
Fin qui la teoria, poi l’articolo passa all’utilizzo pratico della ricerca.
«In primis - sottolinea Williams-, chi vuole esporsi al meccanismo del Risk-on può optare per un paniere» che contenga l'S&P (31%), il Russell 2000 (15%) e il Ftse 100(54%): «è una combinazione caratterizzata da un'alta correlazione».
«Il legame tra diversi asset - aggiunge Maurizio Milano, responsabile analisi tecnica del gruppo Banca Sella - va monitorato. Un tempo, per esempio, possedere azioni e commodity significava avere un portafoglio diversificato. Oggi quest'impostazione non regge più: la liquidità influenza le quotazioni di molte materie prime, facendole andare a braccetto con le Borse».
L’articolo è senza dubbio interessante, tuttavia rimango un po’ scettica: da una parte son convinta che alcuni indici siano direttamente collegati con materie prime e commodity, ma mi sembra un po’ una forzatura attribuire tutta questa correlazione alle borse.
Soprattutto in periodi particolari come quello in cui stiamo vivendo, le variabili che influenzano i mercati sono molteplici ed è particolarmente difficile intuire cosa può succedere in un mercato, anche alla luce di cambiamenti in settori strettamente correlati. Si pensi ad esempio agli andamenti delle commodity e si scelga ad esempio il petrolio: il prezzo dell’oro nero è ancora ben lontano dai valori toccati prima della crisi, tuttavia per apprezzare cosa sta succedendo nel settore energetico nostrano si deve giocoforza analizzare anche il cambio euro-dollaro.
In definitiva, credo che sia giusto analizzare la correlazione tra i vari indici e alcune materie prime, ma le regole a cui gioca il mercato sono ben più complesse e forse difficilmente globalizzabili.