sabato 20 novembre 2010

Giovane, bella, intelligente e di classe: un pessimo affare

Una donna di New York ha scritto a un sito di Finanza americano chiedendo consigli su come trovare un marito ricco: già ciò di per sé é divertente, ma il meglio della storia é quello che un tizio le ha risposto.

LEI
Sono una ragazza bella (anzi, bellissima) di 28 anni. Sono intelligente e ho molta classe. Vorrei sposarmi con qualcuno che guadagni minimo mezzo milione di dollari all'anno. C'é in questo sito un uomo che guadagni ciò? Oppure mogli di uomini milionari che possono darmi suggerimenti in merito? Ho già avuto relazioni con uomini che guadagnavano 200 o 250 mila $, ma ciò non mi permette di vivere in Central Park West. Conosco una signora che fa yoga con me, che ha sposato un ricco banchiere e vive a Tribeca, non é bella quanto me e nemmeno tanto intelligente. Quindi mi chiedo, cos'ha fatto x meritare ciò e perché io non ci riesco? Come posso raggiungere il suo livello? ?

LUI
Ho letto la Sua mail con molto interesse, ho pensato profondamente al Suo caso e ho fatto una diagnosi della Sua situazione. Premetto che non sto rubando il suo tempo, dato che guadagno 500 mila $ all'anno.
Detto ciò, considero i fatti nel seguente modo. Quello che Lei offre, visto dalla prospettiva di un Uomo come quello che Lei cerca, é semplicemente un pessimo affare.
E ciò per i seguenti motivi: Lasciando perdere i blablabla, quello che Lei suggerisce é una negoziazione molto semplice. Lei offre la sua bellezza fisica e io ci metto i miei soldi.
Proposta  molto chiara, questa. Ma c'é un piccolo problema. Di sicuro, la Sua bellezza diminuirà poco a poco e un giorno svanirà, mentre é molto probabile che il mio conto bancario aumenterà continuamente. Dunque, in
termini economici, Lei é un attivo che soffre di deprezzamento mentre io sono un attivo che rende dividendi.
Lei non solo soffre un deprezzamento: questo é progressivo, e aumenta ogni anno! Spiego meglio: oggi Lei ha 28 anni, é bella e continuerà così x i prossimi 5/10 anni, ma sempre un pò meno e all'improvviso, quando Lei osserverà una foto di oggi, si accorgerà che é diventata una pera raggrinzita.
Questo significa, in termini di mercato, che oggi Lei é ben quotata, nell'epoca ideale x essere venduta,  non x essere comprata.
Usando il linguaggio di Wall Street, chi la possiede oggi deve metterla in "trading position" (posizione di commercio) e non in "buy and hold" (compra e tieni stretto), che, a quanto sembra, é ciò per cui Lei si offre. Quindi, sempre in termini commerciali, il matrimonio, "buy and hold", con Lei non é un buon affare nel medio/lungo termine.
In compenso, affittarla per un periodo può essere, anche socialmente, un affare ragionevole e potremmo pensarci su. Potremmo cioè avere una relazione per un certo periodo, con vantaggi reciproci.
Peraltro, pensandoci meglio - anche per assicurarmi quanto intelligente, di classe e bellissima Lei sia -  io,  possibile futuro "affittuario" di tale "macchina",  richiedo ciò che é  buona prassi: fare un test drive.
La prego di stabilire data e ora.

Cordialmente,
il Suo Investitore

martedì 16 novembre 2010

Tobin Tax: della serie, alle volte ritornano...


Mi ha sempre incuriosito la Tobin Tax –dal premio Nobel per l’economia James Tobin che la propose nel 1972, anche se autorevole dottrina sostiene che anche Keynes ne era fautore–  l’imposta che colpisce tutte le transazioni sui mercati valutari.
La curiosità nasce dal fatto che questa tassa viene via via riproposta, ma perché? Beh, perché il meccanismo sembra piuttosto semplice e al tempo stesso perfetto: con questa imposta si dovrebbero colpire tutte le transazioni sui mercati valutari per stabilizzarli (penalizzando le speculazioni valutarie a breve termine), e contemporaneamente per procurare delle entrate da destinare alla comunità internazionale: come ha scritto Rustichini, sarebbe come prendere tre piccioni con una fava (colpire gli avidi, stabilizzare i mercati e aiutare i poveri). Ma serve veramente a colpire gli avidi speculatori e stabilizzare i mercati? La teoria ci dice che se introduciamo una tassa sulle transazioni finanziarie, il volume delle transazioni si ridurrà; ma cosa succede a volatilità e speculatori? La riduzione della volatilità nella visione Stiglitz-Summers avviene perché a essere scoraggiati sono gli investitori che operano con informazione imprecisa (noise). Si è capito però che l'effetto sugli speculatori veri, quelli informati, è l'opposto. La riduzione del volume delle transazioni rallenta il trasferimento dell'informazione nei prezzi, e gli speculatori hanno il tempo di fare comodamente i loro profitti. Esperimenti di laboratorio confermano questa analisi: il volume delle transazioni scende, gli scambi si spostano verso mercati non soggetti a tasse, la volatilità aumenta se ci sono zone esenti.
E anche le esperienze confermano che la Tobin Tax non è la manna dal cielo che sembra… Infatti, in molti stati l’imposta è stata introdotta, ha avuto vicende travagliate, e conseguentemente è stata eliminata. È successo in Svezia: introdotta nel 1984, (abolita nel 1992) Argentina (1992), Brasile (2007), Giappone (1999), Finlandia (1992), Olanda (1992), Nuova Zelanda (1992).
Un altro problema non indifferente è la scelta dell’aliquota. Nella mente del premio Nobel Tobin era sufficiente un’aliquota modesta (0,05%) per raccogliere così tanto denaro da sradicare nel mondo la povertà estrema. Nei paesi in cui questa imposta è stata introdotta si è notato un progressivo innalzamento dell’aliquota, che però si rileva ben presto controproducente e fa spostare le transazioni in altri mercati. Emblematico il caso della Svezia, dove l'aliquota iniziale era già alta (0,5%), ma raddoppia (1%) due anni dopo: subito dopo il 60% delle transazioni si sposta a Londra, e la tassa viene eliminata.
Ora, l’idea della Tobin Tax è senza dubbio affascinante, ed è per questo che quando leggo un articolo che ne parla non resisto alla tentazione e cerco sulla rete tutte le più disparate informazioni su quello che vogliono fare i governi, inoltre – a mio parere – il nome dell’imposta richiama Robin Hood, il celebre paladino che rubava ai ricchi (gli avidi speculatori) per dare ai poveri (che, ahimè, non speculano per niente!). Ma le favole spesso sono lontane dagli andamenti del mercato, e per quanto riguarda l’assonanza del nome mi torna in mente che anche la famigerata IRAP, definita da Qualcuno Imposta RAPina, poi non è stata tolta da quel Qualcuno…

lunedì 8 novembre 2010

Il "moral hazard" e lo schema di Ponzi: come una semplice truffa può mettere in crisi un'economia intera

Il rischio morale (moral hazard) è un fenomeno che si ha quando una persona non paga le conseguenze delle sue scelte. Normalmente il rischio morale è considerato un problema: secondo la terminologia economica, un fallimento di mercato. In senso tecnico un fallimento di mercato è ogni allontanamento della realtà dal modello di equilibrio generale competitivo; ma cerchiamo di capire meglio in cosa può consistere un rischio morale.
Ad esempio, immaginiamo che un soggetto A convinca i suoi conoscenti a prestargli soldi sostenendo di conoscere un meccanismo mirabolante per moltiplicarli. La voce gira, i soldi arrivano sempre più numerosi; il meccanismo che sta alla base è semplice: con i soldi degli ultimi si pagano gli interessi, sempre un po’ troppo alti, oppure si rimborsa il capitale dei primi che cominciano ad avere dei dubbi, e così via. Dove è il problema? Il problema è che non c’è il meccanismo mirabolante per moltiplicare i soldi.
Tornando ad A, non è necessario che questi sia disonesto o che scappi con il malloppo. Se A si è preso troppi rischi, o è stato sfortunato, violazioni di legge a parte, il suo meccanismo di truffa cadrà non appena un numero sempre più grande di investitori chiederà indietro i propri soldi, provocando una crisi di liquidità ad A, che si troverà costretto a dichiarare il proprio fallimento. Questo apparentemente semplice meccanismo viene utilizzato da anni per gonfiare bolle speculative in tutto il mondo, perfino quella dei mutui sub-prime. Questa apparentemente semplice catena di Sant’Antonio prende il nome di schema di Ponzi. dal nome di un truffatore di origine italiana, Carlo detto Charles, nato a Lugo di Romagna nel 1882. Rispetto alla catena di Sant'Antonio il Ponzi punta in realtà su una figura carismatica centrale, che mantiene i contatti diretti con i clienti. Non si tratta di una struttura piramidale pura, che ha il difetto di crollare con maggiore rapidità. Negli anni Venti Ponzi organizzò una supertruffa, offrendo il raddoppio in tre mesi del capitale investito in titoli (inesistenti) delle Poste internazionali.
Riprendiamo adesso il nostro esempio, e cambiando un piccolo particolare: se A, però, è una delle banche mondiali salvate con i soldi pubblici, perché troppo grandi per fallire, assistiamo a un fenomeno che vale la pena di ricordare: i debiti si devono sempre pagare, anche quando sembra che non li paghi nessuno. I debiti che non paga il debitore, li paga comunque il creditore, rinunciando volente o nolente ai propri soldi. Se il creditore non ha più soldi, nel senso che le garanzie che ha in mano, oppure il suo capitale non valgono il credito cui deve rinunciare, e quindi si apre un buco così grosso da minacciare la stabilità dell’economia. Allora lo Stato inventa una soluzione per socializzare il debito cercando di “spalmarlo” sul massimo di cittadini possibile, come succede con il debito pubblico e il più dilazionato possibile. Da qui possiamo arrivare ad una prima conclusione: il rischio del debito privato di un paese è sempre privato, alla fine, se non si vogliono fare danni a catena. Corollario della prima conclusione è che bisogna controllare sempre il livello di rischio che è associato al debito privato di una certa economia, ma a chi spetta questo controllo? Alle tanto discusse agenzie di rating? A qualche organismo internazionale superpartes? Quel che è certo è che al momento nessuno si sta preoccupando di farlo, o almeno di farlo in modo appropriato.
Consideriamo, come suggerisce l’”Economist”, la politica della Fed della "term auction facility": questo strumento serve per finanziare le banche in difficoltà senza far sapere al mercato che la banca che lo usa è in difficoltà. Si tratta di creare un’imperfezione informativa per permettere alla banca di finanziarsi senza soffrire una perdita di reputazione. La motivazione alla base è che, se la banca non scaricasse su terzi i propri rischi, non accederebbe alla finestra di rifinanziamento. Questo sembra essere solo un esempio di una cosa già nota: ogni politica monetaria che salva sistematicamente le banche crea azzardo morale. Ma qui non abbiamo una conseguenza indesiderata di un salvataggio, ma una strategia deliberata per evitare la crisi.
E, per la prima volta da quando abbiamo deciso di intraprendere quest’attività del blog, le nostre idee, cari lettori, divergono. Per cavalleria esponiamo prima l’idea di Federico, che spulciando qua e là ha trovato questa notizia sullo schema di Ponzi e ha, quindi, dato avvio alla discussione:
Se si ha paura di comportarsi in maniera irresponsabile, perché i mercati forniscono incentivi corretti, questi incentivi vanno eliminati, perché come la storia passata ci insegna è stato il comportamento irresponsabile da parte degli attori economici che ha portato all’evoluzione del sistema finanziario, a volte con effetti positivi, a volte con effetti decisamente deleteri (vedi la crisi dei mutui sub-prime), ma che sicuramente saranno la base della finanza del futuro.
Secondo Valentina, invece, non è necessario che si debba arrivare all’azzardo morale (leggi speculazione) per avere un mercato efficiente, o comunque un sistema finanziario che non collassi; la speculazione certamente fa muovere molto, ma non può e non deve essere il volano per alcun tipo di economia! Insomma, è come un raffreddore latente e mal curato: dovrebbe essere attentamente monitorato e contenuto perché può avere degli effetti devastanti.
Secondo entrambi, comunque, il moral hazard è pericoloso perché sono in ballo grossi rischi… ma anche grosse opportunità!

lunedì 25 ottobre 2010

La disintossicazione delle banche

Ad un paio d’anni dalla crisi finanziaria è il momento di tirare le somme. Sul banco degli imputati siedono le banche, perché con i loro mutui subprime re-impacchettati e venduti ai risparmiatori sono state le attrici principali della crisi.
Ma vediamo di preciso a quanto ammontano le loro perdite: il Fondo Monetario Internazionale recentemente ha stimato in 2.200 miliardi di dollari le perdite bancarie tra il 2007 e il 2010, una cifra enorme. Sono dovuti intervenire i governi centrali che, alla stregua di genitori premurosi, hanno iniettato liquidità nel sistema. Le banche adesso si stanno gradatamente risollevando: hanno ricominciato a fare utili e ripristinato in parte la fiducia presso i loro clienti.
Quando succedono queste cose il pericolo da scongiurare è che ricapitino ancora, quindi ecco un nuovo accordo sulle banche, il cosiddetto Basilea 3, che sostanzialmente richiede alle imputate un capitale più consistente per far fronte ad eventuali rischi.
Se ben ricordate il problema delle banche era che al loro interno avevano degli assets tossici che non si riuscivano a valutare, dei titoli difficilmente collocabili sul mercato perché non si capiva bene cosa ci fosse dentro. A qualche anno di distanza com’è la situazione?
Secondo uno studio di Mediobanca gli assets tossici delle principali banche europee ammontano a circa 347 miliardi di Euro, il 4% del loro attivo, ma il 52% del patrimonio netto tangibile. Approfondendo l’analisi si scopre che ci sono istituti più esposti (soprattutto Dexia e Deutsch Bank, ma anche Credit Suisse, Barclays, Bnp Paribas e Credit Agricole) e banche che navigano in acque migliori, come le italiane.

L'economia sarà mai una scienza esatta?


Pochi giorni fa è venuto a mancare il Prof. Benoît Mandelbrot, padre della geometria frattale; qualche ricerca su internet e ho scoperto che esiste anche una branca di questa scienza che si applica al campo economico, la cosiddetta economia frattale!
A partire dai primi anni Sessanta, e fino ai giorni nostri, l'applicazione della geometria frattale a questioni economiche ha condotto Mandelbrot a mettere in discussione alcuni consolidati fondamenti dell'economia classica e della finanza moderna, quali l'ipotesi di razionalità dei comportamenti degli agenti economici, l'ipotesi dell'efficienza del mercato, e quella secondo cui i movimenti dei prezzi di mercato sono descrivibili come un cammino casuale (random walk) in analogia al moto browniano di una particella in un fluido. L'analisi frattale delle variabili economiche e finanziarie ha portato nell'ultima decade alla nascita della cosiddetta finanza frattale, nella quale lo stesso Mandelbrot ritiene siano attualmente impegnati almeno un centinaio di ricercatori. Altri ricercatori sono impegnati nel più vasto campo dell'econofisica.
E pensare che io avevo sempre creduto che l’economia fosse una scienza inesatta!! Comunque, se queste branche della scienza ci aiutano a capire cosa succede nei mercati e soprattutto cosa succederà nel futuro, come potremo evitare le crisi economiche e eliminare un po’ di incertezza, ben vengano. Personalmente ritengo che sia molto difficile ingabbiare l’economia in rigide regole matematiche -non me ne vogliano gli econofisici-, perché il mercato è fatto di attori umani, esseri sensibili alle notizie che trapelano e incredibilmente difficili da anticipare.

Il bilancio IKEA: informazioni (minimali!) finalmente pubbliche


C’è sempre una prima volta. E questa è la prima volta che IKEA, il gigante svedese famoso per i prezzi imbattibili, pubblica i propri risultati finanziari. La società non era tenuta a rendere pubblici i propri bilanci perché non era quotata, ma in vista del suo prossimo ingresso in Borsa, ha deciso di rendere noti i numeri del suo successo.
L’occasione è ghiotta e noi, curiosi come sempre, abbiamo deciso di prenderla al volo ed abbiamo sbirciato nei dati di bilancio.
La prima cosa che colpisce è l’esiguità delle informazioni che IKEA fornisce, solo 27 pagine (foto comprese), mentre i bilanci delle società quotate sono generalmente oltre le 200 pagine. Dopo una breve presentazione del gruppo, della vision aziendale e dell’I-way, il modo in cui IKEA intende raggiungere i propri scopi, si arriva ai dati di bilancio.
I ricavi del gruppo sono alti, si parla di quasi 22 milioni di euro, in crescita dell’1,4% tra il 2008 e il 2009 nonostante il periodo di crisi. Ma quello di cui il colosso può andare fiero è la crescita dell’EBIT del 4,4%; ora, mancano le Note al bilancio, per cui non abbiamo elementi per dire come IKEA sia riuscita a contenere i costi operativi, probabilmente la crisi ha giocato il suo ruolo, soprattutto nel prezzo del carburante che ha fatto crollare i costi dei trasporti.
Anche la crescita dell’utile netto è stata positiva, + 11,3%, ma ciò deriva dal calo del tax rate, che è passato dal 19% al 13%.
L’altro aspetto da indagare è la capacità di generare cassa, ma purtroppo manca il rendiconto finanziario, e possiamo solo dire che IKEA è stata capace di creare 1370 milioni di euro, pur con un circolante che si sta ampliando, probabilmente perché sta entrando in nuovi mercati. Infatti, il gruppo, attualmente presente in 26 stati, prevede di espandersi sia in Europa (Serbia e Croazia) che nel mondo (Corea del Sud e India).

martedì 21 settembre 2010

Il Profumo dell'addio

La bomba è scoppiata, e si sa, quando scoppia una bomba c’è un gran schiamazzare, tutti che parlano, voci non confermate che si rincorrono, insomma, non si riesce a capire bene cosa sia successo. Proprio per questo motivo abbiamo cercato di lasciare che le acque si calmassero un po’ prima di parlare quello che è su tutti i giornali, economici e non: Alessandro Profumo, l’Amministratore Delegato di Unicredit, ha lasciato la guida del gruppo bancario il 21 settembre dopo che il CdA ne aveva chiesto le dimissioni.
La reazione del mercato è stata immediata, e di certo non ci potevamo attendere che una decisione del genere non avesse pesanti ripercussioni sul valore di borsa di Unicredit: ieri il titolo ha perso circa il 4%, oggi si assiste ad una lieve ripresa, inferiore al punto percentuale. Sempre oggi era atteso l’incontro tra il presidente di Unicredit (cui è temporaneamente affidata la gestione del gruppo) e Bankitalia.
La coltre di fumo che ha destato la “bomba” non si è del tutto dissipata, ma è chiaro che alla base dei dissidi tra CdA e Profumo c’è la forte presenza libica nel pacchetto azionario di Unicredit. Tanto forte che sia i vecchi azionisti sia autorità istituzionali (il sindaco di Verona ne ha parlato sulla stampa) temono una scalata libica. Ora, il pericolo libico è forse remoto, certo è che una scalata ai danni di una delle più importanti banche italiane non sarebbe auspicabile in questo periodo; ma allora, se il problema non è la Libia, perché c’è stato questo cambio al vertice? Abbiamo provato a spulciare i dati di bilancio in cerca di informazioni, ma purtroppo non ne siamo venuti a capo… solo il tempo dissiperà la coltre fumosa attorno a questa storia… Intanto vi vogliamo raccontare quello che abbiamo raccolto sul vecchio AD.
Ma chi è Alessandro Profumo? Un signore distinto con alle spalle una carriera eccellente tra banche e consulenza aziendale, che nel 1998 approda alla guida del neonato gruppo bancario Unicredit. Qui inizia la sua politica di acquisizione di istituti bancari minori, con un occhio di riguardo verso l’Est Europa; (ricorderete che quando scoppiò la crisi finanziaria fu proprio Unicredit uno dei titoli più ballerini, proprio perché si temeva per l’esposizione verso i paesi dell’Est).
Una data significativa in questo processo di acquisizioni è il 2007, con la fusione di Unicredit con Capitalia, Profumo è a capo di uno dei più grandi gruppi bancari d’Europa. Adesso non gli rimarrà altro che consolarsi con la buonuscita con cui sarà congedato da Unicredit, stimata intorno ai 40 milioni di euro.

martedì 14 settembre 2010

Ma sarà davvero tutta colpa delle banche?

Nei periodi di crisi tutti cercano un responsabile, nella crisi finanziaria che stiamo vivendo sembra che la colpa di tutto sia delle banche. Ora, è pacifico che senza banche non si può vivere, quindi da un po’ di tempo a questa parte i governi si stanno muovendo in due direzioni: da un lato si cerca di capire se devono essere ritoccate le norme che regolano il sistema finanziario, dall’altro si vuole monitorare lo stato di salute delle banche. Sul primo punto è stata approvata proprio ieri Basilea 3, mentre per quanto riguarda il secondo la Federal Reserve si è inventata lo stress test, una valutazione della riserva di capitale delle banche. In pratica la FED e l’autorità di vigilanza bancaria hanno creato un test per determinare se le organizzazioni bancarie più grandi degli Stati Uniti hanno capitale sufficiente a reggere l'impatto di un ambiente economico più difficile rispetto a quanto attualmente previsto.
La reazione europea è stata analoga: il CEBS (Committee of European Banking Supervisors) in collaborazione con la BCE e la commissione Europa hanno effettuato il test sulle principali banche Europee (91 di cui 5 Italiane). Il risultato ha evidenziato una buona capacità delle banche europee a reggere un eventuale peggioramento dell'economia reale nel biennio successivo. Infatti solo 7 non hanno passato l'esame: si tratta della tedesca Hypo Real Estate (già salvata dallo stato nel 2008 e successivamente nazionalizzata), la Ata bank greca e 5 casse di risparmio spagnole: Diada, Cajasur, Espiga, Unnim et Banca Civica. Ovviamente son scoppiate delle polemiche perché il risultato non tiene conto che di certi particolari studiati per non compromettere nessuna delle grandi banche. Inoltre, cosa succederebbe a queste banche se un paese andasse in fallimento? Non si sa. Tra l'altro la percentuale delle banche sottoposte all'esame non è la stessa per tutti i paesi. In Spagna furono sottomesse all'esame il 95% delle banche mentre negli altri paesi solo il 50%. Le 5 banche italiane sottoposte allo stress test (UniCredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi di Siena, Banco Popolare e Ubi Banca) hanno superato tutte l'esame.
Ma perché gli stress test? Il ragionamento che sta dietro a queste tipologie di azioni si basa su una duplice considerazione. In primis, c'è la premessa a qualsiasi attività bancaria: un istituito deve avere messo un gruzzoletto da parte a copertura dei rischi per il credito concesso ai debitori. È il cosiddetto “patrimonio di vigilanza”, che si compone del patrimonio di base (Tier 1) e di quello supplementare (Tier 2). Secondo le indicazioni di Basilea II, il patrimonio di base (Tier 1), per evitare che la banca non sia in grado di affrontare problemi creditizi, non deve mai essere inferiore alla percentuale del 4% (Tier 1 ratio) di tutti i suoi asset ponderati con il rischio.
Per valutare lo stato di salute delle banche, su cui nel Vecchio Continente molti nutrono dubbi, sono stati per l'appunto pensati gli stress test. Cioè, è stato ipotizzato uno scenario fortemente negativo, valutandone gli effetti sul Tier 1 ratio delle singole società. Con una particolarità: nell'ipotesi negativa considerata, il Tier 1 ratio non deve scendere sotto il 6 per cento.
Sono state individuate due variabili principali. La prima riguarda un peggioramento dello scenario macroeconomico nell'Unione europea: è ipotizzato che, nel biennio 2010-2011, il Pil cresca il 3% in meno rispetto alle attuali stime (il tanto temuto double dip), la seconda ipotesi è che salgano i tassi di mercato.
La polemica infuria sulla metodologia adottata (ad esempio il sistema di valutazione varia da paese a paese!) e sul fatto che gli stress in Europa sono stati condotti dopo che molte banche erano state ricapitalizzate.
In definitiva, lo stress test sembra il primo passo per una presa di coscienza del problema-banche, un modo per diagnosticare le malattie degli istituti finanziari, ma se davvero si vogliono evitare nuove crisi finanziarie si deve fare di più. Prevenire è sempre meglio che curare.

domenica 12 settembre 2010

Chi ha inventato la Fed?



Federal Reserve Bank
La Federal Reserve (Fed) è la Banca Centrale degli Stati Uniti d’America o, più correttamente, è definibile come il “sistema delle banche centrali” americane (tanto che, corrispondentemente, occorrerebbe parlare di Federal Reserve System).

La nascita di questa importante istituzione americana nacque nel bel mezzo di una crisi economica, che ebbe inizio nel 1907. Le cosiddette “società fiduciarie” (trust compagnie), banche commerciali soggette ad un regime di regolamentazione permissivo e regolate tra loro attraverso complesse catene di partecipazioni azionarie, soffrirono un’emorragia di riserve e il panico si diffuse per tutto il Paese. Il mercato azionario andò a picco, e mentre la crisi si propagava incontrollata il banchiere più importante del Paese, J.P. Morgan, convocò una serie di riunioni d’emergenza con l’establishment bancario di New York per arrestare la corsa agli sportelli. Il primo fine settimana di novembre, una mossa azzardata divenne leggendaria: Morgan invitò i banchieri nella sua biblioteca privata; quando vide che non acconsentivano a soccorrersi a vicenda, li chiuse in una stanza e mise in tasca la chiave. I banchieri alla fine raggiunsero un accordo e la crisi ebbe termine poco tempo dopo. A Morgan andò il merito di aver scongiurato una catastrofe, ma gli eventi del 1907 convinsero molti della necessità di creare una banca centrale che agisse da prestatore di ultima istanza nell’eventualità di crisi future. È così che il 23 dicembre del 1913 per volere del Congresso degli Stati Uniti nacque la FED, il cui obiettivo era rendere più stabile e sicuro il sistema finanziario e monetario della nazione.

Una nascita travagliata, quella della Federal Reserve, passata attraverso diversi tentativi e correzioni. La Fed, così come la conosciamo oggi, è in realtà la terza tipologia di Banca Centrale sperimentata dai cittadini statunitensi: la prima risale al periodo 1791-1811, la seconda a quello 1816-1836. Dalla seconda all’attuale forma vi è un periodo di “free banking” parzialmente regolamentato a livello locale dalle istituzioni monetarie dei vari Stati. La Guerra Civile e una serie di avvenimenti e situazioni da panico causate dal fallimento di alcune banche (di cui si avevano già avuto i sentori negli anni 1873, 1893 e 1907) spinsero poi il Congresso a creare una commissione monetaria nazionale al fine di riformare l’intero apparato bancario degli Stati Uniti in senso federale, al fine di tutelare l’interesse di tutti i componenti della federazione, e facendo in modo che nessuna banca potesse influenzare da sola l’intera struttura. Il riferimento, in questo caso, era soprattutto rivolto alle banche vicine alla east coast, maggiormente in grado di esercitare tale influsso.

mercoledì 8 settembre 2010

Economia comportamentale: l'euforia irrazionale dei mercati

L’economia comportamentale è un argomento quanto mai di attualità, soprattutto negli ultimi giorni in cui si avverte la paura generalizzata per quello che tutti ormai chiamano il “double dip”, ovvero, la ricaduta dell’economia in una fase recessiva.
Al di là di ciò che possiamo leggere sulla stampa, che rappresentano comunque il pensiero di giornalisti ed economisti importanti e, quindi, dell’economia moderna, è dal passato che possiamo trovare gli spunti necessari  per interpretare il futuro che ci attende. Leggendo i giornali degli ultimi giorni mi tornava in mente una teoria economica studiata nei libri di economia politica qualche anno fa, e volevo riproporvela.
Non è mia intenzione ripercorrere a ritroso tutta la teoria economica del recente passato, tuttavia può essere interessante affrontare i problemi di oggi prendendo spunto dalle idee di una branca di economisti che hanno deciso di intraprendere un nuovo campo di studi: l’economia e la finanza comportamentale. I ricercatori di queste discipline hanno sviluppato “modelli della psicologia umana nella sua relazione con i mercati finanziari” [Robert J. Shiller, From Efficient Market Theory to Behavioral Finance, Journal ol Economic Perspectives, 17, 2003, p.90].
Negli ultimi anni queste teorie hanno attratto innumerevoli economisti. Molti ricercatori hanno condotto esperimenti per determinare esattamente in che modo gli operatori del mercato azionario possano assumere comportamenti che contribuiscano a formare perturbazioni quali le bolle e le ondate di panico finanziario.
Recenti ricerche nel campo della finanza comportamentale hanno rivelato diversi modi in cui le bolle si formano, si autoalimentano e infine scoppiano. La “feedback theory”, per esempio, suggerisce che gli investitori, osservando un aumento dei prezzi, si lasciano trascinare dall’entusiasmo generale provocando un ulteriore aumento delle quotazioni, il che a sua volta attrae altri investitori, che gonfiano la bolla ancora di più. A lungo andare il meccanismo di feedback porta ad una situazione nella quale i prezzi sono completamente slegati da qualsiasi base razionale, aumentando vertiginosamente fino al punto di massima espansione: a quel punto crollano creando una “bolla negativa”, nella quale i prezzi vanno a picco precipitosamente.
Gli studiosi di economia comportamentale hanno identificato diversi fattori “parametri fondamentali del comportamento umano”, come li definiva Shiller, che possono esasperare questo meccanismo di feedback. Uno di questi è “l’errore di auto attribuzione”, nel quale gli investitori che partecipano a una mania speculativa attribuiscono la crescita dei loro guadagni alla loro perspicacia, anziché al fatto di trovarsi in una bolla con altre centinaia di investitori. Questo è solo un esempio, ma vi sono numerosi altri fattori che, secondo queste teorie, alterano il comportamento umano e, quindi, il funzionamento dei mercati.
Le teorie di Shiller e di altri autori ci suggeriscono che: tutta questa attenzione alle dimensioni irrazionali del comportamento economico ha prodotto un quadro non molto lusinghiero del funzionamento dei mercati (o del cattivo funzionamento degli stessi). Il capitalismo, secondo questa teoria, non è un meccanismo autoregolato che va avanti senza troppi scossoni, ma è un sistema soggetto ad “euforia irrazionale” e “pessimismo infondato”. In altre parole, i mercati sono dei sistemi straordinariamente instabili e, purtroppo, basta dare un’occhiata all’attuale crisi per trovare ulteriori conferme della fragilità dei mercati.
In conclusione, dopo questa breve riflessione derivata dalle teorie economiche, ci accorgiamo come questi studiosi, ancora oggi poco apprezzati, siano riusciti a mettere in evidenza le linee di frattura che dividono ancora oggi i diversi modi di intendere le crisi e le loro conseguenze. E, come è facile prevedere, è proprio dal passato che possiamo trarre le migliori ispirazioni per comprendere il nostro futuro.

Il volano del turismo può essere il marketing territoriale proposto dai comuni?

Sembra interessante l’iniziativa di alcuni comuni che hanno deciso di fare un vero e proprio marketing territoriale proponendosi come mete turistiche. Sul sito de Il Sole 24 Ore è apparso nei giorni scorsi un articolo in cui si chiedeva ai lettori di comunicare il brand della propria città. Lo scopo del marketing territoriale è duplice: da una parte le amministrazioni cercano di tamponare i conti in rosso e dall’altra di creare nuovi posti di lavoro, obiettivo quanto mai importante in questo periodo di crisi e di sfiducia.
La sfida che si propongono gli enti territoriali è tutt’altro che semplice, e stiamo parlando di un paese che ha praticamente tutto dal punto di vista paesaggistico (mare, monti, colline che entrano nei libri di storia dell’arte) clima e cultura enogastronomica che ci invidiano in tutto il mondo, per non parlare dell’arte: si stima che in Italia ci sia circa l’80% di tutta l’arte del mondo. Una nazione così “fortunata” dovrebbe essere al primo posto negli arrivi turistici, e invece da circa cinque anni occupa la quinta posizione, sorpassata da Francia, Spagna, USA e Cina.

Rank Country International tourist arrivals
1  France 74.2 million
2  United States 54.9 million
3  Spain 52.2 million
4  China 50.9 million
5  Italy 43.2 million
6  United Kingdom 28.0 million
7  Turkey 25.5 million
8  Germany 24.2 million
9  Malaysia 23.6 million
10  Mexico 21.5 million

 Fonte: UNTWO (April 2010). "UNTWO World Tourism Barometer Interim Update" (PDF). http://www.unwto.org/facts/eng/pdf/barometer/UNWTO_Barom10_update_april_en_excerpt.pdf. Retrieved 2010-05-07.

 
Il problema è evidente, ma per molti anni troppo poco è stato fatto; forse la situazione a livello centrale si sta smuovendo, è stato istituito un ministero ad hoc, ovviamente dobbiamo attendere qualche anno per vedere se il sistema abbia lavorato bene, perché sono le cifre che contano.
A livello locale, invece, si ha come la sensazione che manchi una certa organizzazione. Si deve capire che il turista, al pari di qualsiasi cliente, va sedotto e coccolato: in un’epoca in cui il tempo è tiranno si devono prima di tutto dare informazioni complete ai potenziali turisti, creare dei pacchetti completi e accessibili ad un numero sempre più ampio di persone. Per questo si dovrebbe migliorare la connessione tra industria ricettiva e attività complementari quali ristorazione, escursioni e musei: più che cercare un brand facilmente riconoscibile dal turista si dovrebbe prima lavorare sulla vacanza che si offre al cliente, il marchio servirà solo a suggellare un lavoro di qualità.
Infine, ben vengano politiche di marketing territoriale proposte dagli enti territoriali, ma bisogna pur sempre ricordarsi che la spinta dovrebbe venire dalle imprese, lo stato non può e non deve sostituirsi al privato… altrimenti si rischia di confondere i ruoli, e i pericoli delle imprese sono sempre dietro l’angolo, vedi il caso dei derivati..!

sabato 4 settembre 2010

L'extracedola di Tod's

In questi giorni, tra le tante notizie che leggiamo sui giornali, attira l’attenzione la distribuzione di un’extracedola da parte del gruppo Tod’s.
La notizia di per sé è inusuale, considerando la crisi e la cautela (eccessiva?) che caratterizza i mercati in questo periodo, ma diventa ancora più importante se consideriamo il fatto che il gruppo ha già distribuito un dividendo pari a 2.20 euro per azione nei primi sei mesi dell’anno.
La risposta del mercato non si è fatta attendere e il titolo in questi giorni ha registrato un +6.19%, che non è sicuramente passato inosservato da parte degli investitori.
Che cosa porta il gruppo Tod’s a distribuire questa extracedola? Beh, sicuramente la risposta merita una visione attenta di tutto il bilancio del gruppo. E, preso a cuore il motto anglosassone “cash is king”, il primo sguardo non può che finire sul rendiconto finanziario. Sicuramente l’elemento più evidente è l’incremento di liquidità che il gruppo che ha fatto registrare nel 2009. Entrando più nel dettaglio, possiamo vedere come tale variazione sia determinata da una riduzione del Capitale Circolante Netto commerciale. Per i non addetti ai lavori ricordiamo che il CCNc è un indicatore importante dello stato di salute di un impresa perché esprime la consistenza del fabbisogno netto derivante dal ciclo operativo; viene idealmente rappresentato come una spugna che, a seconda della gestione dell’impresa, rilascia oppure assorbe liquidità.
Per comprendere tale affermazione si consideri che le attività esprimano investimenti, ossia impieghi di capitale, e pertanto misurino la consistenza del fabbisogno finanziario lordo dell’impresa, che si manifesta indipendentemente dall’ammontare delle fonti utilizzate per coprire tale fabbisogno. Di contro, le passività legate al ciclo operativo indicano in che misura il fabbisogno finanziario si riduce grazie alle politiche commerciali instaurate con i fornitori dell’impresa. Di conseguenza il CCNc esprime l’ammontare dei capitali netti che l’impresa deve auto produrre o raccogliere sul mercato se vuole svolgere il proprio processo produttivo.
Risulta banale osservare che minore è la spugna (ovvero la liquidità imprigionata nell’azienda che ne permette il normale funzionamento) minori saranno le risorse che l’azienda dovrà procacciarsi per lo svolgimento della propria attività.
Tornando alla nostra analisi, la riduzione del CCNc, in generale, rappresenta un buon indicatore dello stato di salute di questa impresa. Questo perché l’azienda è riuscita a farsi pagare prima dai clienti, ha ottenuto più ampie dilazioni di pagamento dai propri fornitori, oppure ha gestito meglio il magazzino.
Entrando nel caso specifico di Tod’s, vediamo che nel 2009 la società è riuscita sia a ridurre la propria esposizione debitoria, sia a contenere l’acquisto delle materie prime, da qui la riduzione del CCNc. Dando uno sguardo al Conto Economico notiamo che al contenimento dell’acquisto di materie prime non è seguita un parallela riduzione delle vendite: questo ci spinge a ritenere che non la quantità, ma il prezzo delle materie prime sia calato, insieme ad un utilizzo delle scorte (per averne conferma si veda la variazione rimanenze).
Il gruppo Tod’s ad oggi si trova con una liquidità di oltre 180 milioni di euro, con una variazione rispetto all’anno precedente di oltre 100 milioni di euro. È evidente che il gruppo avesse intenzione di “fare cassa” e ci sia riuscito molto bene. Non essendo degli analisti interni, non possiamo sapere quale sia il vero intento di questa operazione, ma quel che possiamo capire è che sicuramente questa rappresenta una delle migliori aziende manifatturiere del nostro Paese.
E anche leggendo cosa dicono le maggiori agenzie sull’argomento i commenti trovano sicura conferma:
Manteniamo il rating add e il target price a 64,90 euro sul titolo Tod's", si legge nella nota di Banca Imi, "anche perché l'azione tratta a un P/E 2010 di 20,5 volte contro una media storica 2004-2007 di 25 volte, quindi tratta a sconto di circa il 18%".

Chi siamo

Questo sito nasce dall’idea di due ragazzi, studenti di economia dell’Università di Firenze, che hanno deciso di mettere insieme le loro idee, di confrontarsi, per trasmettere informazioni, approfondimenti ed esprimere opinioni in tema di economia e non solo….
Il nostro obiettivo è prima di tutto stimolare noi stessi, trarre spunto da tutte quelle persone che nel nostro percorso universitario ci hanno stimolato, facendoci vedere quel che c’è aldilà della semplice lezione di microeconomia, di matematica, di economia aziendale, dandoci degli spunti che ci fanno andare oltre e ci spronano a dare il meglio di noi stessi sempre.
Il punto di partenza è, quindi, quello di porsi delle domande, gli stimoli possono essere molteplici, da un libro che abbiamo letto, un articolo di giornale, o due chiacchere scambiate in un bar: l’importante è essere curiosi e inseguire quelle risposte che tanti cercano, ma che soltanto in pochi sanno trovare.
Questo progetto nasce oggi senza alcuna presunzione di fornire delle verità, né delle spiegazioni accademiche, ma soltanto con il fine di aiutare prima di tutto noi stessi, e poi i nostri lettori a farsi un‘opinione sui temi dell’attualità economica.
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Federico e Valentina